Rimesse degli immigrati, un mercato da 410 miliardi di dollari pronto per il bitcoin.

A tanto ammontano secondo Banca Mondiale e Fondo monetario internazionale i fondi trasferiti dagli immigrati verso i loro Paesi d’origine in questo 2013. Servizi basati sul bitcoin potrebbero abbattere tempi e costi di questi trasferimenti, e c’è già chi si sta organizzando.

Per inquadrare il discorso partiamo dall’esperienza di Shaun Matsheza, emigrato dallo Zimbabwe in Olanda 5 anni fa. Il nostro amico ogni mese si presenta ad un banco di Western Union armato di contanti e tessera cliente per mandare una parte dello stipendio alla propria famiglia rimasta nel Paese natale. Nel processo perde in media il 15% della somma trasferita sotto forma di “fees”, e se costretto a spedire piccole somme, deve pagare un costo minimo di 17 euro per transazione. Per ritirare i soldi, dopo aver ricevuto il codice segreto necessario, un membro della famiglia di Shaun deve poi affrontare mezz’ora di viaggio per recarsi al più vicino banco Western Union. Il processo è quindi lento, insicuro, ma soprattutto costoso.

D’altra parte servizi come Western Union o MoneyGram sono più convenienti delle banche, e ad oggi costituiscono la scelta principale in fatto di rimesse verso gran parte dei Paesi africani e non solo. In media, come si può vedere nella tabella, per spedire denaro verso l’Africa subsahariana bisogna rinunciare a circa il 12.29% della somma trasferita in favore dell’intermediario. Nonostante il g8 con l’obiettivo “5×5” si sia impegnato nel 2009 a ridurre al 5% la media dei costi sul trasferimento delle rimesse nei successivi 5 anni, tale media risulta ancora più alta, in particolare se la destinazione é un Paese del continente nero. In quest’ottica sistemi basati sul bitcoin e ben integrati nella peculiare realtà africana potrebbero diventare ben presto un nuovo standard nel settore delle rimesse. E forse sta già accadendo.

tabella 2.1

Come sicuramente sa chi legge questo blog, la spedizione e la ricezione di bitcoin attraverso i confini di una o più nazioni ed il loro scambio con valuta locale sono operazioni con un costo molto basso e grazie alla natura decentralizzata del sistema non richiedono l’intervento di banche o governi. Basterebbe quindi suggerire a Shaun di convertire la somma da spedire in bitcoin e spedirla all’indirizzo bitcoin di un parente nello Zimbabwe, dove sarà poi riconvertita in valuta locale. Facile direte, se solo in Zimbabwe ci fosse una rete internet capillare e qualcuno disposto a convertire i bitcoin in valuta locale. Per fortuna dove qualcuno vede un problema qualcun altro vede un’opportunità, ed è così che l’imprenditore Pelle Braendgaard ha creato Kipochi, un’applicazione mobile che funziona sia su smart che su “dumb” phone, e che consente di trasferire bitcoin grazie solo ad un numero di cellulare. 

Pelle Braendgaard, cofondatore di Kipochi.
Pelle Braendgaard, cofondatore di Kipochi.

Abbiamo così risolto il problema di come far arrivare i bitcoin al parente che non ha un pc od una connessione internet, purtroppo però al momento solo pochi negozianti illuminati accettano la crittomoneta in cambio di beni o servizi. La zia del nostro Shaun si ritrova quindi una somma in bitcoin che non può utilizzare direttamente. Ed ecco la seconda parte del piano del sg. Braendgaard: “Puntiamo a creare una rete di negozianti che accettino di scambiare i bitcoin dei clienti Kipochi con denaro locale, in cambio dell’1% della somma trasferita.” Ecco quindi chiuso il cerchio di una “rimessa” con costi nettamente inferiori a quelli di Western Union o MoneyGram. Ma andiamo oltre.

 

In Kenya, un paese privo di una solida infrastruttura bancaria e telematica ma con una diffusione capillare della telefonia mobile e dei cellulari, esiste un sistema chiamato M-PESA, che consente già ai 18 milioni di cittadini kenioti aderenti di utilizzare il proprio cellulare per inviare e ricevere denaro localmente. Ecco quindi che l’integrazione del protocollo bitcoin in M-PESA consente un’immediata spendibilità dei bitcoin ricevuti dai propri parenti emigrati all’estero. Oltre al già citato Kipochi (che ha già ottenuto questa integrazione), stanno lavorando in questa direzione le startup BitPesa e Coinfling, entrambe già più o meno d’accordo con M-PESA. 

Ricapitolando: Shaun (in Olanda) cambia una parte del proprio stipendio su un sito di exchange come bitstamp in bitcoin (costo dell’operazione minore o uguale allo 0,5% del totale). Ottenuti i bitcoin li spedisce all’indirizzo della zia in Zimbabwe (costo dell’operazione variabile, ma solitamente di qualche millesimo di bitcoin). A questo punto i bitcoin vengono caricati sull’account Kipochi del nokia 3310 della zia e questa, a seconda degli sviluppi nell’immediato futuro potrà: a) spendere direttamente i bitcoin nei negozi che li accettano; b) cambiarli in valuta locale presso un negoziante abilitato (pagando l’1% della somma per il servizio); c) utilizzarli attraverso M-PESA negli esercizi convenzionati. Paragonato al 15% di un trasferimento Western Union sembra già una prospettiva allettante, ma i più attenti avranno già individuato un possibile intoppo: la volatilità.

Benché l’allargamento del bacino di utenza dei bitcoin in futuro comporterà verosimilmente una maggiore stabilità del loro valore rispetto alle valute fiat, al momento una moneta che passa da 1000 a 800 a 1200$ nell’arco di un mese non è esattamente l’ideale. La soluzione più sicura per ora sembra quella di cambiare subito i bitcoin in valuta locale. “La cosa ci ha preoccupato – ammette Braendgaard – ma credo che molte rimesse avranno vita breve”. Nel giro di qualche ora è possibile infatti effettuare tutta la trafila (euro->bitcoin-> cellulare della zia in Zimbabwe->valuta locale, beni e servizi), in maniera che quello che viene spedito sia ricevuto senza variazioni di valore. Nel caso questo non fosse possibile, anche qui la soluzione esiste: la società che fa da intermediario può “assorbire” il rischio della volatilità bloccando (a proprie spese) il valore della transazione al momento della conferma (come ha ipotizzato in un’intervista il CEO di BitPesa), ovviamente però chiedendo una tariffa maggiorata per il servizio.

Ecco quindi come l’Africa subsahariana, dove il 76% degli adulti non ha un conto in banca, può diventare il terreno di coltura perfetto per lo sviluppo del bitcoin, nonché un’opportunità straordinaria per startup ed imprenditori coraggiosi, che potranno poi esportare il proprio business in altri Paesi in via di sviluppo.

Fonte: http://cur.lv/5q3nl

Autore: Leonardo Brentegani

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